Fruizione delle ferie dei dipendenti per contenere la diffusione del Covid19 raccomandata dal DPCM del 9 marzo 2020. Vanno distinte quelle già maturate con quelle dell’anno in corso
Il tema delle ferie, negli ultimi giorni, ha assunto un ruolo centrale. Senza dubbio si tratta di uno strumento importante per togliere dall’impasse tutte quelle aziende nelle quali non è possibile prestare attività lavorativa in regime di smart-working, in quei reparti aziendali non indispensabili per la produzione.
Come è noto, nel DPCM dell’8 marzo 2020, il Governo ha incentivato le imprese private ed anche la Pubblica Amministrazione a “promuovere […] la fruizione da parte dei lavoratori dipendenti dei periodi di congedo ordinario e ferie fermo restando” la possibilità di adottare la modalità di lavoro smartworking (cfr. art. 1, comma 1 lett. e). Già era stato evidenziato prima della decisione del Governo, che la sospensione della prestazione a causa dell’emergenza da COVID-19, che impatta fortemente sulle attività produttive, poteva essere gestita con l’utilizzo di alcuni istituti diversi dagli ammortizzatori sociali, sia pure con le dovute cautele.
Viene garantito pertanto al datore di lavoro la possibilità di determinare autonomamente e in via unilaterale, il periodo di ferie, facendo venir meno sia la necessità di compiere una valutazione comparativa delle diverse esigenze, sia la necessità di garantire un periodo di preavviso tra l’assegnazione delle ferie e il momento di godimento, nonché il tema della consultazione necessaria delle rappresentanze sindacali prevista in alcuni contratti collettivi. E ciò, pur essendo stato previsto, con il DPCM dell’11 marzo, al comma 9 dell’art. 1 che “..si favoriscono, limitatamente alle attività produttive, intese tra organizzazioni datoriali e sindacali”: si tratta di un invito per i datori di lavoro e non già di un obbligo.
Questa prospettiva applicativa della norma, tuttavia, non sembra aver fatto i conti con le disposizioni ordinarie che presidiano la regolazione del diritto alle ferie e quindi con l’art. 2019 cod. civ. e con l’art. 10 del d.lgs. n. 66 del 2003. Va ricordato, infatti, che sebbene sia il datore di lavoro a dover “preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie” (cfr. art. 2109 cod. civ.), questo potere viene stemperato talvolta dalle procedure che impone il contratto collettivo applicato in azienda, volto a tutelare gli interessi in gioco, determinando un piano di ferie che sia frutto di un bilanciamento tra le esigenze di vita dei lavoratori e degli interessi aziendali; talaltra, dalla legge in quanto è riconosciuta al lavoratore la possibilità di richiedere il godimento di almeno due settimane di ferie (cfr. art. 10 del d.lgs. n. 66 del 2003). È per questa ragione, allora, che il legislatore, nell’utilizzare anche uno strumento molto “discusso” per la gestione di questa emergenza in termini di gerarchia delle fonti (il DPCM), si è limitato a raccomandare di “promuovere” anziché di “utilizzare” o “imporre” le ferie unilateralmente. Pertanto, si ritiene che il ricorso a questi istituti va sempre gestito di comune accordo con il lavoratore o con gli interlocutori sindacali, onde evitare che se ne faccia un utilizzo improprio (se non addirittura illegittimo; v. sul punto Trib. Pordenone 25 luglio 2016, n. 121 che ha ritenuto illegittime le c.d. ferie forzate perché non è stata inviata una comunicazione preventiva né è stato espletato un esame congiunto con l’interlocutore sindacale).
In altri termini, se la richiesta di utilizzo delle ferie proviene dal lavoratore, non vi possono essere dubbi circa la legittimità della concessione in quanto il lavoratore pone una richiesta che è in sintonia con la norma del DPCM. Anche se il datore di lavoro chieda la disponibilità dei lavoratori a farsi collocare in ferie, non vi possono essere dubbi sulla legittimità della condotta in quanto anche questa si pone nel solco tracciato dal decreto.
È prudenziale, per le aziende, tuttavia, procedere con tale “attribuzione forzata” solo con riferimento alle ferie maturate e non anche a quelle maturande, per le quali è preferibile tener conto delle esigenze e del consenso dei dipendenti.
È pur vero che il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze 1° agosto 2014, n. 83473 imporrebbe all’impresa “allo scopo di fruire dei trattamenti di integrazione salariale in deroga” di utilizzare preventivamente “gli strumenti ordinari di flessibilità, ivi inclusa la fruizione delle ferie residue” (art. 2, comma 8). Ma dal tenore letterale di questa disposizione, sembrerebbe che il legislatore anziché condizionare l’utilizzo degli ammortizzatori sociali all’impiego preventivo delle ferie maturande, si riferisca alle ferie già maturate e non ancora fruite dal dipendente. Infatti, se così interpretata, la norma del decreto del Ministero dell’Economia confermerebbe quanto detto sopra e cioè che il potere unilaterale del datore di lavoro di collocare in ferie forzate il dipendente residuerebbe solo nell’ipotesi in cui si tratti di ferie già maturate in relazione agli anni precedenti e non ancora godute. In tutte le altre ipotesi, invece, andrebbe tenuto in debito conto il quadro normativo delineato. Nella medesima prospettiva, si pone anche la circolare INPS 27 maggio 2015, n. 107 che definisce ferie residue e maturate “quelle residue dell’anno precedente e quelle maturate fino alla data di inizio delle sospensioni”.
In conclusione, per quanto riguarda lo strumento delle ferie non maturate, qualora il datore di lavoro dovesse ricorrervi, sarebbe necessario il consenso del lavoratore. Il che comporta che siano vietate le ferie forzate, visto che come viene definito dal regolamento si tratta di un periodo che deve essere dedicato al riposo del dipendente e non a diventare uno strumento per risolvere un problema dell’azienda
Tale aspetto, dunque, potrebbe essere oggetto di impugnazione da parte di quei dipendenti che, si sono visti imporre la fruizione di un periodo di ferie. In tal caso, potrebbe ravvisarsi una illegittima condotta datoriale, non sussistendo effettive ragioni organizzative.
Questa è una fase in cui le aziende sono chiamate a dover effettuare quotidianamente delle scelte dettate dall’evolversi dell’emergenza e dalle conseguenti misure adottate dagli organi superiori. È auspicabile che, fermo restando l’obiettivo principale del mantenimento di standard qualitativi elevati nell’erogazione dei servizi essenziali, si possano adottare misure idonee a contribuire e creare un clima positivo e di coesione tra aziende, istituzioni e parti sociali.